Questo articolo non è mio, lo inserisco nel mio blog perché non vorrei perderlo di vista!
MAGISTRALE ESERCITAZIONE DIALETTICA
DI MARCELLO VENEZIANI SUL PREMIER
Giuseppe Conte non è. Non è un
leader, non è un eletto, non è un politico, non è un tecnico, non è nulla. È il
Nulla fatto premier. E lo conferma ogni giorno adattandosi come acqua corrente
alle superfici che incontra. È la plastica rappresentazione che la Politica,
dopo lo Scarso, lo Storto, il Pessimo, ha raggiunto lo Zero, la
rappresentazione compiuta del Vuoto.
Luogotenente del Niente, Conte è
oggi il fenomeno più avanzato della politica dopo i partiti, i movimenti, le
ideologie, la politica e l’antipolitica, i tecnici e i populisti, le élite e le
plebi. È la svolta avvocatizia della politica che pure è da sempre popolata di
avvocati: ma Conte non scende in politica, assume solo da avvocato l’incarico
di difendere una causa per ragioni professionali; ma i clienti cambiano e così
le cause. Andrebbe studiato nelle università del mondo perché segna un nuovo
stadio, anonimo e postumo della politica. Non si può esprimere consenso né
dissenso nei suoi confronti perché non c’è un argomento su cui dividersi; lui
segna la fine del discorso politico, la fine della decisione, la fine di ogni
idea, di ogni fatto. È la somma di tante parole usate nel gergo istituzionale,
captate e assemblate in un costrutto artificiale. È lo stadio frattale del
moroteismo, il suo dissolversi. Ogni suo discorso è un preambolo a ciò che non
accadrà, il suo eloquio è uno starnuto mancato, di cui si avverte lo sforzo
fonico e il birignao istituzionale ma non il significato reale. Altri semmai
decideranno, lui si limita al preannuncio.
Ogni volta che un tg apre su di
lui, non c’è la notizia, è solo una presenza che denota un’assenza; si spalanca
una finestra nel vuoto. I fatti separati dalle opinioni, si diceva; lui è nello
spazio intermedio dove non ci sono i fatti e non ci sono le opinioni. Dopo che
Conte avrà parlato lascerà solo una scia di silenzi e di buchi nell’acqua. Non
darà risposte, sceneggerà un ruolo e dirà lo Zero virgola zero. Nelle sue
citazioni saccenti vanifica l’autore citato, lo rende vuoto e banale come lui.
Conte non rientra in nessuna categoria conosciuta, eppure abbiamo avuto una
variegata fauna di politici al potere. Lui non è di parte, eccetto la sua, è
piovuto dal cielo in una sera senza pioggia.
Conte è portatore sano di politica
e di governo, perché lui ne è esente. È contenitore sterile di ogni contenuto.
Non ha una sua idea; quel che dice è frutto del luogo, dell’ora e delle persone
che ha di fronte. Parla la Circostanza al suo posto, la Circumstancia, per
dirla con Ortega y Gasset; Conte è la somma dell’habitat in cui è immesso,
traduce il fruscio ambientale in discorso.
Figurante ma senza neanche figurare
in un ruolo, è l’ologramma di una figura inesistente, disegnato in piattaforma
come un gagà meridionale degli anni 50. Un po’ come Mark Caltagirone, il fidanzato
irreale di Pamela Prati; è solo una supposizione. Trasformista, a questo punto,
sarebbe già un elogio, comunque un passo avanti, perché indicherebbe un
passaggio da uno stadio a un altro. Conte, invece, è solo la membrana liquida
che di volta in volta riveste la situazione, producendo un molesto acufema in
forma di eloquio. Conte cambia voltura a ogni utente e rispetto a ogni gestore
(non fu un caso nascere a Volturara).
Conte è fuoco fatuo,
rappresentazione allegorica del niente assoluto in politica, ma a norma di
legge. Quando apparve per la prima volta dissero che aveva alterato il
curriculum e in alcune università da lui citate non era mai stato, non lo
conoscevano; ma Conte è un personaggio virtuale, il curriculum può allungarsi,
allargarsi, restringersi secondo i desiderata occasionali.
Conte non ha una storia, non ha
eredità e provenienze, non ha fatto nessuna scalata. È stato direttamente
chiamato al Massimo Grado col Minimo Sforzo, anzi senza aver fatto
assolutamente nulla. Una specie di gratta e vinci senza comprare nemmeno il
biglietto, anzi senza aver nemmeno grattato. Da zero a Palazzo Chigi. Come
Gregor Samsa una mattina si svegliò scarafaggio, lui una mattina si svegliò
premier. Un postkafkiano.
Conte è di momento in momento di
centro di destra di sinistra cattolico laico progressista, medieval-reazionario
con Padre Pio, democratico-global con Bergoglio, fido del sovranista Trump e al
servizio degli antisovranisti eurolocali; è genere neutro, trasparente, assume
i colori di chi sta dietro. Un passe-partout. Il Conte Zelig, come lo
battezzammo agli esordi, ha assunto di volta in volta le fattezze gradite a
tutti i suoi interlocutori: merkeliano con la Merkel, junckeriano con Juncker,
trumpiano con Trump, macroniano con Macron, chiunque incontra lui diventa
quello; è lo specchio di chi incontra. In questa sua capacità s’insinua e
manovra.
Conte non dice niente ma con una
faticosa tonalità che sembra nascere da uno sforzo titanico, la sua parlata
cavernosa e adenoidea è una modalità atonica, priva di pensieri o emozioni,
pura espressione vanesia di un dire senza dire, il gergo della premieralità. Il
suo vaniloquio è simulazione di governo, promessa continua di intenti, rinvio
sistematico di azioni; è un riporto asintomatico di pensieri, la somma di più
uno e meno uno. Indica con fermezza che si adatta a tutto e non comunica
niente.
Dopo Conte non c’è più la politica;
c’è la segreteria telefonica, il navigatore di bordo, la cellula fotoelettrica.
Il drone. Conte però ha una funzione, e non è solo quella di cerniera lampo tra
sinistra e M5S, punto di sutura tra establishment e grillini. È la spia che la
politica non c’è più, nemmeno nella versione degradata più recente. Lui è
oltre, è senza, è il sordo rumore del nulla versato nel niente.
MV, Panorama n.41 (2019)